Fiorentino dall'anima cosmopolita, Pietro Grossi ha al suo attivo già diverse opere di buon successo, conquistando in poco più di un decennio un ruolo di spicco fra le voci della nuova narrativa italiana. È toscano ma con nonne americane, ha l’inglese come seconda lingua madre, ma è incapace di tradursi. Non ha neanche quaranta anni, ma ha avuto Enzo Siciliano come amico («è morto la sera della mia finale allo Strega»), ha vissuto la Scuola Holden di Baricco da studente e insegnante e come editore ha avuto prima Sellerio (Pugni, L’acchito e Martini), con numerosi premi (dal Chiara al Campiello Europa), e poi Mondadori (Incanto).
Ha vissuto a New York, Roma e Milano, ha lavorato con società di produzione cinematografica, ha fatto il traduttore, il correttore di bozze, il barman e il copywriter. Ora vive ritirato in campagna, nella bassa Toscana. Scrive a mano ogni giorno, con una Bic nera su quaderni Mead. Il primo libro letto è L’amico ritrovato di Fred Uhlman, il preferito Guerra e pace.
Dice di avere tante storie in testa che ancora non sa scrivere, «devo ancora maturare», e per questo guarda criticamente i suoi lavori, specie l’esordio: «quando nel 2000 uscì Touché facevo un sogno ricorrente: mi salvavo per miracolo pur non riuscendo a fermarmi a un semaforo rosso. In fondo è quello che è avvenuto. Non rinnego l’esordio, ma ho trovato un commento su Ibs: “trovato su una bancarella a 2 euro, buttati anche quelli”». Bisogna aspettare il 2006 per Pugni, pluripremiato libro di tre racconti, genere poco amato dall’editoria, ma molto da Grossi: «all’inizio volevo scrivere romanzi e non ci riuscivo, così un giorno ho lasciato perdere la lunghezza e ho trovato un testo di 50-60 pagine dove ho scoperto di trovarmi a casa. Stavo bene in quel respiro, anche se continuavo a volere storie più ampie e ambiziose, e Incanto è figlio di questa ricerca».
Ma Incanto è anche l’unico testo (esordio escluso) ambientato ai nostri giorni, più o meno: «contestualizzare nel contemporaneo mi pesa sulla mano… e io scrivo a mano. I miei racconti sono fuori dal tempo e dallo spazio, e rileggendoli è una cosa che mi intrigava. E poi non so se sono in grado di parlare dell’Italia: è un mostro da affrontare. Più mi allontano, più vorrei stare qui, come accanto a un parente che sta morendo».
Grossi ha una sua idea di letteratura: «lì niente è ovvio: il suo tratto è la sua libertà, quindi tutto è anormale. È un luogo dove possiamo mettere il mondo in pausa. Se il tempo è il vero lusso del nostro tempo, la letteratura è il lusso di potersi sedere e leggere o raccontare, entrare nel dettaglio».
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